Mi domando
se davvero sia possibile che ciascuno di noi si occupi del proprio contesto
senza mai superare lo steccato. Ho molte volte detto che fare bene il proprio
mestiere è il modo migliore per contribuire al funzionamento del meccanismo
sociale, è già fare politica. Ma capita che non sia possibile fare bene il
proprio lavoro. Capita che le condizioni siano talmente estreme che diventa
necessario sconfinare, prendere parte al dibattito pubblico per provare
(talvolta con scarsissimo successo) a modificare il corso delle cose. È
possibile pensare che la società sia divisa per compartimenti stagni?
Naturalmente no. Ho sempre ritenuto che l’importanza della letteratura
risieda proprio in questo: essere spuria, bastarda, contaminata, uscire dal
ristretto ambito dell’accademia. Ho sempre ritenuto che uno scrittore, ma anche
un conduttore televisivo, un comico e chiunque abbia visibilità, debba
necessariamente prestare quella visibilità a cause che ritiene giuste,
necessarie, fondamentali. Debba farsi strumento, veicolo, tramite. Per la
politica varrebbe la stessa regola ma continuare a sperare che ci arrivi da
altri una possibilità di cambiamento, è il nostro più grande errore. È nostro
diritto pretenderlo, ma allo stesso tempo dobbiamo costruirci una personale
cassetta degli attrezzi. La rincorsa che si prende alla fine di ogni anno a
fare promesse e dichiarazioni, è pari solo allo stallo cui poi assistiamo una
volta scoccata la mezzanotte. Gli ultimi giorni di ogni anno sono pieni di
propositi e chiunque abbia un pulpito pronuncia un discorso. Tanti propositi,
ma scarsi poi i risultati. Tanti attacchi, ma pochissime assunzioni di
responsabilità. Discorsi come parole in libertà cui non crede più nemmeno chi
le ha scritte. Allora io preferirei udire qualcosa di simile a un
anti-discorso, ovvero un discorso col segno meno e non alla fine dell’anno,
come ad assolversi da ogni responsabilità, ma all’inizio del nuovo. Ovvero
adesso. Cosa non abbiamo fatto nell’anno che si è appena concluso? Cosa non
siamo riusciti a fare per mancanza di tempo o di risorse? Nella vita i
fallimenti sono importanti perché ci fanno capire come modificare il passo.
Cancellare, nascondere, insabbiare i propri fallimenti significa restare fermi
al palo, significa non capire cosa va cambiato. Un fallimento insegna più di mille
successi. Chi mi legge mi chiede coerenza, impegno, lealtà. Ed è esattamente
quello che io chiedo a voi. Prima di cercare altrove i responsabili dei nostri
fallimenti cerchiamo di capire quali sono le nostre responsabilità, solo così,
solo pretendendo il massimo da noi riusciremo a pretendere il massimo da chi ci
sta accanto e da chi ci governa. Assolvendo noi stessi, finiremo per assolvere
tutti. Questa mia è una “call to action” che parta da noi: individuiamo il
nostro segno meno, non lo dimentichiamo, usiamolo per migliorarci. Cosa avreste
voluto fare e non avete fatto? Quali le vostre responsabilità nel fallimento?
Capire è l’unico modo perché l’azione diventi efficace.
Grazie a Roberto Saviano
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