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29/01/2015

Un vino di 3.000 anni fa! Dove? In Sardegna.

Le zone D.O.C. e D.O.C.G.
Una scoperta che riscrive la storia della viticultura dell'intero Mediterraneo occidentale. A farla gli studiosi dell'Università di Cagliari. L'équipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità (CCB), ha rinvenuto semi di vite di epoca Nuragica, risalenti a circa 3000 anni fa. E ha avanzato l'ipotesi che in Sardegna la coltivazione della vite non sia stata un fenomeno d'importazione, bensì autoctono.  Sino ad oggi, infatti, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici, che colonizzarono l'isola attorno all'800 a.C., e successivamente ai Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale. Ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà Nuragica dimostra che la viticoltura in Sardegna era già conosciuta: probabilmente ebbe un'origine locale e non fu importata dall'Oriente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo del CCB sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo: dalla Turchia al Libano alla Giordania si cercano tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni.
Nel sito nuragico di Sa Osa, nel territorio di Cabras, nell'Oristanese, una squadra di archeobotanici, ha trovato oltre 15.000 semi di vite, perfettamente conservati in fondo a un pozzo che fungeva da 'paleo-frigorifero' per gli alimenti. Si tratta di vinaccioli non carbonizzati, di consistenza molto vicina a quelli 'freschi' reperibili da acini raccolti da piante odierne. Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati intorno a 3000 anni fa (all'incirca dal 1300 al 1100 a. C.), età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica. Gli archeosemi ritrovati e analizzati sono quelli della Vernaccia e della Malvasia, varietà a bacca bianca coltivate proprio nelle aree centro-occidentali della Sardegna. La grande scoperta ci direbbe che la vite in Sardegna non è stata portata dai Fenici, che in Libano già la coltivavano ancor prima dell'età Nuragica, ma bensì che si sia verificata la 'domesticazione' in loco di specie di vite selvatiche, che ancora oggi sono diffuse ampiamente in tutta la Sardegna. Va tenuto conto, però, che i Nuragici erano un popolo molto attivo negli scambi commerciali e hanno avuto contatti anche con altre civiltà, come quella cretese o di Cipro, che conoscevano la vite. La scoperta è il frutto di oltre 10 anni di lavoro condotto sulla caratterizzazione dei vitigni autoctoni della Sardegna e sui semi archeologici provenienti dagli scavi. I risultati sono giunti anche grazie all'innovativa tecnica di analisi d'immagine computerizzata. L'analisi sfrutta particolari funzioni matematiche che analizzano le forme e le dimensioni dei vinaccioli (semi di vite), mettendo a confronto i dati morfometrici dei semi archeologici con le attuali cultivar e le popolazioni selvatiche della Sardegna. Ciò ha permesso di scoprire che questi antichissimi semi erano appartenuti alle varietà coltivate mostrando, come visto, una relazione parentale anche con quelle silvestri che crescono spontanee sull'Isola. Adesso abbiamo la prova scientifica che i Nuragici conoscessero la vite domestica e la coltivassero. Questi semi di vite provenienti dal passato sono dunque un patrimonio prezioso per valorizzare le produzioni vitivinicole doc e dei vitigni in via di sparizione.  

Grazie a Monica Rubino

25/01/2015

Memoria: scoperto l'effetto "amarcord"*.

Una scena tratta da "Amarcord" di Federico Fellini.
Alcuni eventi che danno emozioni forti sono in grado di far riaffiorare nella mente un'esplosione di vecchi ricordi del passato, non direttamente connessi all'evento e sopiti nella memoria. L'effetto "amarcord"*. Un effetto retroattivo che cambia anche il passato e aggiorna particolari accantonati, potenziandone il ricordo. L'emozione, dunque, non fa solo ricordare ogni dettaglio di uno specifico episodio coinvolgente, ma rafforza nella mente anche le memorie più datate, che fino a quel momento sembravano insignificanti e non avevano apparentemente lasciato un segno. L'apprendimento emotivo può portare al rafforzamento dei ricordi più vecchi, cambiandoli. Noi monitoriamo continuamente il nostro ambiente e, in questo processo, accumuliamo innumerevoli dettagli. Poi ne dimentichiamo la maggior parte, ma i nuovi risultati ottenuti con la ricerca suggeriscono che gli eventi significativi o emotivi possono preservare selettivamente la memoria di informazioni incontrate in precedenza e accantonate perché allora ritenute senza particolare significato. Gli scienziati hanno condotto una serie di esperimenti per seguire il destino di queste informazioni apparentemente non rilevanti, e diventate in un secondo momento più significative. Obiettivo: capire se e come i ricordi passati vengono "aggiornati" alla luce di un nuovo apprendimento emozionale. I ricercatori hanno anche scoperto che l'apprendimento emotivo ha "scavato" nel passato. Secondo gli scienziati, le persone sono in grado di richiamare alla mente un ricordo ordinario perché successivamente legato all'apprendimento emozionale. Questa memoria "potenziata" per eventi precedenti è stata osservata solo dopo un ritardo, il che suggerisce che il miglioramento retroattivo dei ricordi avviene facilitando la memoria a lungo termine. I risultati evidenziano la natura altamente adattativa del nostro sistema di "archiviazione" e suggeriscono che la memoria non solo può viaggiare indietro nel tempo per recuperare eventi del passato, ma può aggiornare questi ricordi, con importanti nuove informazioni o dettagli.
Grazie a Lila Davachi ed Elizabeth Phelps


*”Amarcord” è una parola della lingua italiana che indica il ricordo nostalgico, il parlare in modo malinconico di momenti ormai lontani nel tempo. Originariamente il termine viene dal dialetto romagnolo “a m’arcord” che vuol dire “io mi ricordo“. L’uso a livello nazionale della parola e il suo nuovo significato è arrivato con l’omonimo film di Federico Fellini nel 1973.

O que sabemos sobre o cérebro?


Quem quisesse entender a mente humana só tinha uma coisa a fazer: especular. Mas eis que, na década de 1990, os cientistas puderam ver nosso cérebro em pleno funcionamento. Tecnologias avançadas pareciam colocar a mente humana finalmente ao alcance. Começa a emergir, em um grupo eclético de pesquisadores, a sensação de que todas as imagens coloridas do sistema nervoso em ação não passam de miragem. Ainda estamos muito longe de compreender como o cérebro produz a consciência. Quando se fala em imagens do cérebro, ver pode equivaler a acreditar, mas não necessariamente a compreender. A grande questão é o que se pode e o que não se pode saber sobre o funcionamento do cérebro. Estamos falando de um sistema nervoso com cerca de 600 trilhões de conexões paralelas, trabalhando de forma frenética para manter nosso corpo funcionando. O que chamamos de consciência é uma parte relativamente pequena dessa conta. Ironicamente, é onde tudo parece se complicar. Um dos lampejos mais antigos da neurociência é o de que o cérebro é dividido em módulos. Cada pedaço seria responsável por certa função. Mas as coisas não são tão simples assim. No cérebro, temos um fenômeno conhecido como plasticidade. É a capacidade de modificar as conexões cerebrais para adquirir novas habilidades. Graças a essa capacidade constante de reorganização, podemos aprender novas coisas e produzir memórias. Ou sofrer um acidente cerebral, mas recuperar movimentos na fisioterapia, ou tocar piano muito bem (a área do cérebro responsável pelo movimento dos dedos se expande nos pianistas). A plasticidade foi confirmada e reforçada em anos recentes com técnicas que permitem ver o cérebro trabalhando em tempo real. O novo passo é, nessa tempestade de impulsos elétricos, conseguir ver imagens usando ressonância magnética funcional. Os vídeos gerados não são uma perfeição, mas permitem ver vultos das imagens a que as pessoas foram expostas enquanto estavam na máquina de ressonância. No futuro será possível gravar sonhos para rever na televisão quando estiver acordado. Inovações como essas fazem parecer que, finalmente, o entendimento de como funciona nosso pensamento está a apenas um passo ou dois de ser compreendida. Às vezes, os neurocientistas se entusiasmam tanto que começam a imaginar ter explicado coisas que estão longe de ser resolvidas. A despeito de inferências bem informadas, o maior desafio do imageamento é que é muito difícil os cientistas olharem para um ponto ativo em uma imagem cerebral e concluírem com certeza o que está acontecendo na mente da pessoa. Há fatores intangíveis na compreensão da mente que nunca surgirão em imagens cerebrais. O domínio neurobiológico é de cérebros e causas físicas. O domínio psicológico é de pessoas e seus motivos. Ambos são essenciais para um entendimento completo de por que agimos como agimos.  Um dos desafios das pesquisas de neurociência é que, para correlacionar um tipo de pensamento a um padrão de atividade cerebral, é preciso que o voluntário relate o que está pensando. Aí fica fácil dizer que visualizaram "amor" ou "ódio" no cérebro. Mas é quase uma redundância. O voluntário já sabia o que estava sentindo, e não precisava de uma imagem cerebral para provar! Por outro lado, sem a informação de quem está "do lado de dentro" da mente, o padrão de atividade em si não permite mais que inferências muito gerais. 

Salvador Nogueira, obrigado.



20/01/2015

Como ficar menos emotivos y mais objetivos? Conversando num idioma estrangeiro!



Você desviaria um trem, fazendo-o atropelar um homem, se isso fosse salvar a vida de várias outras pessoas? Durante uma experiência feita pela Universidade de Chicago, dois em cada dez entrevistados responderam "sim" para esse dilema moral. Em seguida, os psicólogos reuniram um segundo grupo e refizeram a pergunta. Só que, desta vez, utilizando um idioma que não era o nativo dos voluntários. Houve testes em inglês, espanhol, francês e hebraico. Resultado: a quantidade de pessoas que aceitaria matar o homem subiu 65%. Quando usam uma língua estrangeira, as pessoas tendem a pensar de modo mais frio. Segundo o estudo, isso pode resultar em decisões menos emocionais e mais racionais como, no exemplo proposto pelo teste, sacrificar uma vida para salvar várias outras. Os pesquisadores não sabem ao certo por que essa mudança acontece. Uma possível explicação é que, quando pensamos e falamos na nossa própria língua, o cérebro age de forma intuitiva, porque já está familiarizado com aquilo (você é capaz de falar sem pensar). Já quando temos de nos expressar em outro idioma, é diferente. O cérebro é forçado a trabalhar mais, porque tem de raciocinar sobre as palavras que irá usar e como irá arranjá-las para construir frases. De acordo com o estudo, esse esforço intelectual atrapalha a chamada "ressonância emocional", ou seja, a capacidade de se identificar com as emoções dos outros, o que resultaria em escolhas mais frias.

Sayuri Hayakawa
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