“A volte le contraddizioni di
un intero secolo appaiono in un solo decennio”.
Parafrasando possiamo dire che in Brasile le contraddizioni degli ultimi 15
anni si stanno rivelando nell’ultima settimana.
Che
succede allora in Brasile?
Dall’arrivo
al potere del Partido dos Trabalhadores, con la presidenza di
Lula dal 2003 al 2010 e di Dilma Rousseff dal 1° gennaio 2011,
gli sforzi di politica economica si sono concentrati sull’inclusione sociale di
vaste masse di diseredati e hanno dato ottimi frutti. Ricerche stimano che in
questo periodo quasi 40 milioni di persone siano
uscite dalla povertà, grazie al successo di estesi programmi che hanno fatto
del Brasile una referenza mondiale per questo tipo di politiche sociali. Ciò,
insieme alle liberalizzazioni del governo precedente (i due mandati di Fernando
Henrique Cardoso, tra il 1995 e il 2002), ha creato le condizioni per il balzo
dell’economia brasiliana dell’ultimo decennio, basato sul circolo virtuoso del credito
abbondante, accesso al consumo delle classi popolari, aumento dell’occupazione.
Allo
stesso tempo, sia per sostenere la domanda interna, sia
per sopperire a una delle storiche carenze, il governo del Pt sin dal 2007 ha
avviato una serie di imponenti piani di investimenti in infrastrutture.
Il Plano de Aceleração
do Crescimento (Pac) sommato agli investimenti legati ai grandi
eventi sportivi dei prossimi anni (Mondiali di calcio 2014, Olimpiadi di Rio
2016), hanno iniettato nell’economia brasiliana oltre due trilioni di reais
(oltre un miliardo e mezzo di dollari), in progetti che comprendono edilizia
residenziale, trattamento dei rifiuti, trasporti pubblici, energia, sgravi
fiscali a settori di rilievo strategico, realizzazione di impianti sportivi.
Il
modello però si è esaurito a mano a mano che l’economia ha assorbito la
manodopera disponibile e l’inflazione, alimentata dalla
domanda di beni di consumo e dalla crescente carenza di forza lavoro, ha
iniziato a rialzare la testa.
Gli imprenditori,
dal canto loro, da tempo lamentano una cornice sfavorevole all’investimento
privato, causa imposizione elevata e caotica, burocrazia soffocante, corruzione,
dirigismo statale, fattori che condannano il paese a un poco lusinghiero
centotrentesimo posto nella classifica Doing Business elaborata
dalla Banca Mondiale.
Il
dilemma, che paralizzerebbe qualsiasi decisore di politica monetaria, tra
privilegiare occupazione e crescita, oppure il controllo dell’inflazione, è
acuito in Brasile dall’approssimarsi delle elezioni presidenziali,
fissate per l’ottobre 2014. Il ricordo dell’iperinflazione di
fine anni Ottanta è troppo recente perché la presidente uscente possa
permettersi il rischio di un avvio di campagna con i prezzi fuori controllo.
Fonti citate dal giornale Folha de S. Paulo riferiscono che una
caduta di 10 punti nella popolarità della presidente Dilma, ha determinato un
deciso mutamento di rotta nella politica economica.
Sembra
insomma si stia delineando in Brasile un cambiamento del modello
macroeconomico di fondo. Il governo di Dilma Rousseff sembra essersi
reso conto che l’effetto positivo derivante dall’inclusione di milioni di
persone nella forza lavoro è finito, la domanda di beni di consumo di queste
fasce della popolazione non può più, da sola, sostenere la crescita. E dunque
che è necessario spostare finalmente la domanda dal consumo agli investimenti,
per aumentare la produttività dell’industria e sopperire alle carenze
infrastrutturali di cui sopra.
Per
questo, negli ultimi mesi l’attenzione del governo si è concentrata sulla
creazione di un ambiente più favorevole all’investimento privato.
Ne è un esempio concreto la nuova legge sulla gestione dei porti,
infrastrutture davvero strategiche per il paese, se si considera che di là
passa il 95 per cento del commercio estero brasiliano, che tuttavia a livello
mondiale si colloca al centotrentesimo posto (su 144 paesi censiti) nella
classifica che valuta l’efficienza del comparto. La scommessa è consentire ai
prodotti brasiliani un accesso più rapido ed economico ai mercati mondiali,
incidendo direttamente sulla loro competitività.
Nonostante
questo panorama di luci e ombre, il Brasile continua a essere una destinazione
appetibile per gli investitori stranieri. La perdurante
fiducia degli investitori esteri, che costituisce un’importante fonte di
risorse per la crescita dell’economia brasiliana, potrebbe tuttavia non bastare
in mancanza di un deciso cambio di rotta nella politica economica.
Le
manifestazioni di questi ultimi giorni riflettono, secondo alcuni analisti,
l’ascesa di una nuova classe media sofisticata, più numerosa e più forte che
adesso può permettersi di esigere servizi pubblici migliori, prezzi piu bassi e
una classe politica meno corrotta.
L’economia
brasiliana ormai decresce da oltre due anni. Il governo ha reagito con un aumento sostanzioso della spesa
sociale che si è dimostrato ancora una volta, fallimentare (caso simile all’Europa). Spesa che è aumentata sproporzionalmente negli ultimi due anni arrivando ai 300 miliardi di reais
(150 miliardi di dollari), senza riuscire a stimolare in modo consistente la
ripresa economica.
Con le
presidenziali nel 2014 si prevede un ulteriore aumento della spesa pubblica il
che potrebbe danneggiare ancora di più l’economia ormai agonizzante del
Brasile.
Tutto
questo dimostra che una crescita “dei numeri” in una economia di un paese non
significa un aumento della qualità di vita dei singoli cittadini, magari è tutto
il contrario.
La quotidianità di un cittadino è fatta di piccoli grandi cose; in un paese immenso
come il Brasile con queste “megalopoli” sovrappopolate le persone più investono
nel proprio lavoro e più diminuiscono la loro qualità di vita, trasformando
ogni giorno in un vero inferno.
Queste
proteste come altre in questi giorni in altri paesi, sono contro i governi e
contro gli stati: inefficienti, corrotti e ogni giorno più estranei dalle realtà
dei loro paesi.