Oggi, nel mondo, la parola italiana
più diffusa è pizza, ma se torniamo indietro, anche solo agli anni
Quaranta del Novecento, il termine (e il succulento cibo cui si riferisce) era
praticamente sconosciuto fuori dell'Italia meridionale. Del resto, se ci
basiamo sulla tradizione più diffusa, è nel giugno 1889 che il cuoco Raffaele
Esposito avrebbe creato la pizza Margherita, con pomodoro (rosso),
mozzarella (bianca) e basilico (verde) a riprodurre il Tricolore, dedicandola a
Margherita di Savoia, regina d'Italia.
La Scienza in cucina di Pellegrino Artusi ha svolto nell'unificazione linguistica italiana sul modello
toscofiorentino un ruolo paragonabile a quello dei Promessi sposi di
Alessandro Manzoni. Proprio nel La Scienza in cucina per altro si
dà conto e spazio alla componente localistica, a quella che potremmo chiamare
l'Italia delle Italie della gastronomia, proponendo ricette di varia origine,
talora suggerite spesso da donne di casa, massaie. Ecco allora il celeberrimo
esempio della ricetta degli Anolini alla parmigiana, inviata da una signora di Parma ad Artusi, che si
dichiara «obbligato alla prefata signora
perché avendo messo in prova la detta minestra è riuscita di tale mia
soddisfazione da poter rendermi grato al
pubblico e all’inclita guarnigione». Del resto, potremmo guardare al
manuale dell'Artusi come a una sorta di blog gastronomico realizzato con
gli strumenti dell'epoca.
Insomma, la cucina italiana, apprezzatissima ambasciatrice nel mondo
dell'Italian style of life, è uno specchio perfetto della nostra
complessa e composita identità, unitaria,
sulla base di una tradizione culturale plurimillenaria e di livello altissimo,
e insieme fortemente legata al territorio:
sub specie linguistica ecco allora i moltissimi regionalismi soprattutto novecenteschi (e pizza non ne è
che l'esempio più importante, anche per il collegamento con la nostra
emigrazione transoceanica), gli altrettanto numerosi dialettalismi sempre più ampiamente diffusi anche in località
lontane da quelle d’origine, ma pure i non pochi geosinonimi (i termini che indicano, con denominazioni diverse a
seconda delle diverse aree linguistiche, referenti identici) come a esempio le
famose coppie branzino / spigola o anguria / cocomero, e
persino geoomonimi, per cui la
stessa parola rinvia a realtà alimentari talora diversissime in aree
geografiche differenti, si pensi a gnocco o salame. E non meno
importanti quelle parole "nazionali" del tipo di pasta o cappuccino
che non solo fanno il giro del mondo ma diventano perfino produttive in altre
lingue.
Una cucina e una lingua, quelle italiane, che non hanno paura d'aprirsi
al nuovo, anche se forestiero - come a suo tempo hanno saputo fare i fantasiosi
cuochi/linguisti che nella prima metà dell'Ottocento dal francese surprise
hanno tratto il nome per i prelibati supplì; una cucina e una lingua che
sanno integrare sapientemente le novità su una base fortemente radicata nella
tradizione e nel territorio; e il discorso sulle provenienze e contaminazioni
"altre" delle nostre cucine regionali (e di quella nazionale) ci
porterebbe assai lontano...
Di fatti nel mondo l'italiano è sempre più fortemente percepito come la
lingua del buono, del buon cibo, del bere e mangiar bene, del buon
vivere: ristoranti, libri e riviste, trasmissioni e ora anche il
mondo digitale propongono e ripropongono
immagini e ricette della nostra cucina, diffondendo insieme alla cultura
gastronomica italiana, un modello linguistico sostanzialmente unitario, di tono
medio ma aperto al "parlato" e non ostile programmaticamente
all'apporto straniero (dal kebab al sushi, dal wok al, o
alla, tajin).
Grazie a Ugo Vignuzzi
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