La lingua è impazzita, tra
genere sessuale e genere grammaticale. La Pinotti (cognome femminile
preceduto dall'articolo determinativo) è, secondo la norma tradizionale, la
forma legittima. Oggi però, una crescente sensibilità consiglia e sostiene
l'uso del solo cognome femminile (Pinotti) o, meglio ancora, del cognome
preceduto dal primo nome, disambiguante il genere (Roberta Pinotti). In
pochi centimetri il giornale rappresenta l'oscillazione tra la norma e l'uso
tendenziale. Qualche millimetro sotto, trova spazio il non raro, oggi, nello
scritto mediatico, mancato accordo tra il nome relativo a un'alta carica
istituzionale, ministro,flesso al maschile, e il participio passato,
accordato invece a senso con il genere sessuale del referente (intervistata).
Risultato: un pastrocchio agrammaticale. Infine, il colpo del knock-out:
nella didascalia, Roberta Pinotti diventa Roberto Pinotti. L'ordine è
restaurato, a costo di una Casablanca linguistica favorevole alla grammatica ma
sfavorevole alla donna.
I dubbi degli utenti
Riassunto delle puntate
precedenti. Un filone persistente e consistente di quesiti inviati dagli utenti
al portale Treccani.it riguarda le forme da usare per i titoli
professionali e, per dirla più semplicemente, i nomi di mestiere, in
riferimento alle donne. Gli stessi dubbi e perplessità si pongono per le
cariche istituzionali, quando ricoperte da donne. «Mi devo far chiamare bibliotecario
o bibliotecaria?», domanda Roberta C. da Bari; «ho letto nei giornali avvocata
e ministra: ma questi nomi non dovrebbero andare sempre al maschile?»,
scrive Gianni T. da Milano; «anche se sono donna, mi firmo sempre il
funzionario, perché la carica è neutra e per noi in italiano il neutro è
rappresentato dal maschile. Se mi firmo la funzionaria che è pure
bruttomi autodiscrimino», digita Valentina B. da Roma.
Il sessismo
La faccenda è complessa, tanto più che mette in
campo, in modo più o meno esplicito, una visione della lingua o,
perlomeno, dell'uso della lingua. Dagli anni Settanta del Novecento il movimento
femminista in Italia si è battuto contro il sessismo nella lingua italiana,
divenuto anche il titolo di un pionieristico documento pubblicato dalla
Presidenza del Consiglio dei ministri nel 1987. All'interno del documento,
spiccano le Raccomandazioni di Alma Sabatini, volte a fornire una serie
di espliciti suggerimenti d'uso, prefiguranti una sorta di norma antisessista.
«Sebbene per più aspetti poco condivisibili, e di
fatto scarsamente sostenute da studiosi e intellettuali, le proposte di Alma
Sabatini ebbero importanza nel sottolineare l’esigenza di un adeguamento della
lingua a mutamenti radicali della società italiana, come quello
dell’emancipazione femminile e dell’uguaglianza tra i sessi». Le proposte avanzate
portarono ad alcune messe a punto da parte di altri studiosi. Per esempio,
l'intenzione di bandire i nomi di mestiere in -essa, in quanto il
suffisso si è spesso connotato per la sua carica denigratoria (vigilessa,
filosofessa; si pensi alle magistrate di Milano ribattezzate nel 2013 giudichesse
da Silvio Berlusconi, nel corso della trasmissione televisiva Otto e mezzo
su La7) è caduta per la sua astrattezza: dottoressa e professoressa,
per fare un paio di esempi, non sono nomi connotati in senso negativo.
Ieri e oggi
Le correzioni di rotta rispetto alle indicazioni
di Alma Sabatinitestimoniano che ci si può impegnare per un uso attento e
intelligente delle risorse grammaticali a disposizione, soprattutto suggerendo
la possibilità di scegliere vie finora non battute o meno battute, del
tutto rispettose della regole fonomorfologiche e delle tradizionali modalità di
formazione delle parole, ma segnate da una sensibilità culturale diversa.
Pesava (e pesa ancora, in parte) un interdetto
che prima di tutto colpisce il ruolo della donna nella società e nel
mondo del lavoro, per secoli confinata nella dimensione della fattrice/nutrice
casalinga, mentre soltanto da pochi decenni le donne sono in crescente, per
quanto non lineare né incontrastata, affermazione nella società, e nel mondo
dei lavori fino a ieri di quasi esclusivo appannaggio degli uomini. Insomma, prima
il problema di dire ministra o ministro neanche si poneva,
poiché le donne che avevano ricoperto tale carica nei primi cinquant'anni della
Repubblica si contavano sulle dita di una mano monca.
Laura Boldrini e Stefania
Prestigiacomo
Ora, invece, il problema si pone. Ciò è
testimoniato dal fatto stesso che, alla Crusca come alla Treccani, nei forum di
discussione in rete, in numerosi blog e pagine di Facebook dedicate alla lingua
italiana, giungono numerosi quesiti sulle forme da usare per i nomi di mestiere
con riferimento alle donne. Sempre più spesso le donne che lavorano nei media
e nelle istituzioni e godono di una certa visibilità si esprimono in merito,
anche se non sempre in modo concorde, a testimonianza, prima ancora di
posizioni ideologiche differenti, dell'effettiva difficoltà a districarsi nel
nuovo ginepraio. Laura Boldrini, l'attuale presidente della Camera, nel
settembre del 2013 dichiarò: «Chiedo da mesi,
non per puntiglio, di essere chiamata “la presidente”. E invece
quando si rivolgono a me mi chiamano “signor presidente”. Ora basta. Non è un
puntiglio o un vuoto formalismo, bensì l’affermazione che esiste più di un
genere». Viceversa, nel 2002, Stefania Prestigiacomo, allora ministra per le
Pari opportunità, aveva dichiarato che preferiva essere chiamata signora
ministro o il ministro (circa signora ministro vale il
discorso fatto più su a proposito del ministro intervistata).
«Che la morfologia lo
permetta»
Che cosa fare, dunque, ora che la sensibilità
sul tema si è approfondita e affinata, in ambito istituzionale, e si è
allargata nella società? In generale, vale la saggia considerazione espressa da
Domingo Yndurain, segretario generale della Real Academia de la Lengua da tempo si pongono gli stessi problemi e ci si dispone ad
affrontarli): «Unica condizione per abbattere la barriera linguistica
maschilista è che la morfologia lo permetta». Consapevole di questo orizzonte,
la linguista Cecilia Robustelli, in collaborazione con l'Accademia della
Crusca, ha pubblicato nel 2012 le Linee
guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, adottate dal Comune di Firenze nell'ambito del Progetto Genere&Linguaggio.
Le Linee rappresentano un punto di riferimento in materia di
indirizzo nell'uso non sessista della lingua, ferma restando la consapevolezza
che, come scrive la stessa Cecilia
Robustelli, sono ancora forti «sia nella comunicazione
istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio
alla nuova realtà sociale». Insomma, è facile constatare che molte persone –
tra cui molte donne – trovano tuttora non accettabile usare le forme ingegnera,
deputata, ministra, avvocata (eppure un'istituzione prestigiosa
come l'Accademia
della Crusca si è apertamente schierata). I motivi sono vari
e spesso si combinano tra di loro: non si vuole passare per estremisti o
tardo-femministe; si pensa al genere grammaticale maschile come a un “neutro”
indifferenziato nobilitante (il direttore è giudicato da molte donne più
rispettabile di la direttrice); si avvertono come cacofonici i “nuovi”
nomi di professione al femminile.
Qualche indicazione
Può essere utile, in un panorama così mosso e in
evoluzione, riprendere in sintesi le indicazioni suggerite da Cecilia
Robustelli per la formazione dei termini relativi a professioni e cariche
istituzionali (in Dizionario del 2012, di G. Adamo e V. Della Valle, in Treccani.
Il libro dell'anno 2012, pp. 266-69, p. 269):
Le parole terminanti in -o, -aio/-ario mutano in -a,
-aia/-aria: architetta, avvocata, chirurga, commissaria,
ministra, prefetta, primaria, sindaca
◦
Le parole terminanti in -sore mutano in -sora: assessora,
difensora, evasora, revisora
◦
Le parole terminanti in -iere mutano in -iera: consigliera,
portiera, infermiera
◦
Le parole terminanti in -tore mutano in -trice: ambasciatrice,
amministratrice, direttrice, ispettrice, redattrice,
senatrice
◦ Le parole terminanti in -e/-a non mutano, ma chiedono
l'anteposizione dell'articolo femminile: la custode, la giudice, la
parlamentare, la presidente
◦
Come sopra per i composti con il prefisso capo-: la
capofamiglia, la caposervizio
◦
Le forme in -essa e altre forme di uso comune vengono conservate:
dottoressa, professoressa.
grazie a Silverio Novelli
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