Search

29/08/2018

Talking to a chronic interrupter is frustrating!



During a Conversation, on average a good interrupter interrupts you 10 or more times in the first hour. Unbearable, is not it?


We live in a culture where interrupting is common and accepted. Being interrupted is frustrating for anyone even worse if you are a shy, soft-spoken, or introverted person, it can make it especially difficult to communicate.
Cutting in while we are speaking can be a way of asserting dominance or disinterest in what we are saying.
On this topic, we have a problem: Plenty of chronic interrupters do not know that they are chronic interrupters. Many times, the person who frequently interrupts others is not aware of the habit.
Reflective listening could be a solution
When the listener rephrases what the speaker said and reflects back what was heard. This gives the opportunity to really clarify the discussion and also stop interruptions.  
Continuing to talk after being interrupted is also an ineffective solution for soft-spoken communicators. If the other party is talking at the same time, there’s no feedback, which makes communication not only pointless, but also impossible by definition.
People tend to interrupt more often when they were leaning away, not making eye contact, and smiling. This suggests that subtle cues, like leaning in and meeting the other person’s eyes can show your engagement in the conversation, making an interruption less likely.

We need to get more assertive: not being confrontational, just being direct. We have to inform, before a conversation starts, that we do not appreciate being interrupted and we would like to finish expressing ourselves. If people refuse to accept these reasonable requests, we can respectfully state that the conversation is not productive and that it would be best to talk another time.

27/08/2018

Gordura e carboidratos: dois nutrientes que nosso cérebro adora...


Quando você sentir vontade instantânea de comer chocolate, não se culpe. O ser humano é um animal com características cognitivas complexas: para nós, comer é bem mais que apenas uma fonte de energia para o corpo. E um estudo recente, feito na Universidade de Yale, examinou exatamente como nossos cérebros respondem à comida. O resultado comprovou que alimentos ricos em carboidratos e gorduras desencadeiam uma quantidade gigante de reações no centro de recompensa do cérebro bem mais que outros alimentos. 



A pesquisa acredita que temos um sistema no cérebro para avaliar alimentos gordurosos e outro para comidas ricas em carboidratos. Se o alimento tiver ambos os nutrientes e ativar os dois sistemas ao mesmo tempo, isso engana o cérebro, que acaba produzindo quase o dobro de dopamina (o mensageiro químico responsável pelo prazer) que deveria.
Quando o cérebro humano evoluiu, nossos ancestrais caçadores-coletores mantiveram uma dieta de, basicamente, plantas e carne. Encontrar alimentos ricos em carboidratos e gordura era raríssimo. Assim, nosso cérebro se anima quando entra em contato com esses alimentos e libera bastante dopamina.
Para chegar a essas conclusões, os pesquisadores examinaram a atividade cerebral de voluntários mortos de fome. Foram mostradas imagens de alimentos ricos em carboidratos, como doces; ricos em gordura, como queijo; ou rico em ambos, como donuts. Após as varreduras das imagens do cérebro, os voluntários foram convidados a oferecer dinheiro em um leilão para escolher a comida que eles queriam em um lanche.
Analisando os resultados, a equipe comprovou que os alimentos ricos em carboidratos e gorduras provocavam muito mais atividade no corpo estriado do cérebro (região envolvida no sistema de recompensa, que libera a dopamina), em comparação com alimentos que continham apenas carboidratos ou gordura. Outra descoberta é que os participantes estavam muito dispostos a pagar mais pelos quitutes ricos em carboidratos e gordura, apesar de todos as comidas terem o mesmo poder em calorias. 

L’amo non l’amo…



Ognuno di noi dovrebbe trovare il suo “elemento”. Il punto di incontro fra quello che amiamo fare e quello che siamo bravi a fare.

Schema di una mappa mentale


L’unica cosa peggiore di odiare il proprio lavoro è quella di sentire che non lo si può lasciare perché non si sa quale altro lavoro desideriamo veramente fare. Questa trappola, questo dilemma è purtroppo molto frequente oggigiorno in tutte le società moderne. Molte, moltissime persone fanno un lavoro per pagare le proprie spese e non per passione. Conseguenza: masse di persone infelici, tristi, frustrate, con conseguenze negative per tutta la società.

Ognuno di noi dovrebbe trovare il suo “elemento”. Il punto di incontro fra quello che amiamo fare e quello che siamo bravi a fare.

Una maniera per trovarlo, innanzi tutto è il voler farlo; secondo, essere coraggiosi e sinceri con noi stessi; terzo, creare una mappa mentale.

Una mappa mentale è il risultato tangibile di un gioco di libere associazioni relativo a un concetto prestabilito; in questo caso il nostro lavoro.

Ecco come iniziare:

1° passo: scegliamo un argomento, qualcosa che ci dia piacere.

2° passo: scriviamo cinque o sei cose relative all’argomento scelto.
Usiamo la prima cosa che ci viene in mente per creare un cerchio di parole. Ripetiamo questo processo di libera associazione con le parole e continuiamo fino a quando non abbiamo almeno tre cerchi di parole.

Diamoci cinque minuti per completare i primi due passi.

3° passo: facciamo collegamenti secondari.
Evidenziamo alcune parole del cerchio esterno che riteniamo significative. Cerchiamo ora di fonderle in nuove idee.

Le mappe mentali si avvalgono di due principi fondamentali del pensiero progettuale: “Scegliamo meglio quando abbiamo molte buone idee tra cui scegliere “, e “Non scegliamo mai la prima soluzione che ci viene in mente a qualsiasi problema “.

In altre parole, anche se abbiamo un’idea geniale, probabilmente non è quella che vogliamo in definitiva mettere in pratica. Prendiamoci un po’ più di tempo e siamo un po’ più creativi; probabilmente verrà fuori qualcosa più vicina ai nostri veri desideri.

“Spesso dobbiamo prendere in considerazione le idee più bizzarre prima di arrivare a quelle realizzabili”. David Kelley


Grazie a Sir Ken Robinson

  



La soledad es una lupa ...



Una persona que aprende a estar bien sola ya no se contenta con la compañía de cualquiera.


Aprender a sentirse bien solos es una de las habilidades más difíciles de aprender en nuestra vida. Existe la soledad deseada, la soledad inducida y luego, la más frecuente y en mi opinión la peor, la que se siente a pesar de la presencia de alguien en nuestra vida. Esta última es el que nos hace sentir realmente solos.

Son nuestros pensamientos, nuestros miedos, nuestras frustraciones, los que más nos hieren. Por lo tanto, tendemos a llenar nuestros propios espacios vacíos con personas, situaciones, intereses, etc. Todo para distraer nuestra mente. Corremos todo el día, todos los días buscando algo que difícilmente encontraremos. Básicamente se trata del miedo a enfrentarnos a nosotros mismos, básicamente se trata del miedo a estar solos.

Aquellos que huyen de la soledad generalmente son personas que sufren y el estar solas es aterrador, porque las obliga a lidiar con sus propios miedos, los más ocultos, los que buscan todos los días de sofocar dentro de ellas mismas.

Sin embargo, una persona que puede sentirse bien sola es una persona que ha aprendido a conocerse y, sobre todo, a aceptarse. Ha aprendido a enfrentar sus fantasmas del pasado, a amarse sin juzgarse.

Se necesita mucha fuerza espiritual para poder amar la propia soledad. Sólo una persona que realmente ha tocado fondo es capaz de disfrutar realmente de la soledad, y cuando la soledad se convierte en una fiel compañía en lugar de un enemigo, empieza a dar valor a su propio tiempo. Ya no se rodea de personas falsas y vacías, ya no se resigna a una presencia que de todas maneras lo haga sentir solo.

"La soledad es como una lupa: si estás solo y estás bien, estás muy bien, si estás solo y estás mal, estás muy mal".
(Giacomo Leopardi)

20/08/2018

Cosa pensare o come pensare?



L’autodeterminazione è la garanzia del fatto che saremo noi i responsabili assoluti della nostra vita.

Sicuramente sbaglieremo tante ma tante volte però l’importante sarà “imparare ad imparare” dai nostri errori e continuare avanti, arricchendo il nostro bagaglio di sapienza e saggezza.

Dovere affrontare problemi o errori è sicuramente un compito molto difficile in quanto comporta un processo di cambiamento e di adattamento che implica una riorganizzazione delle nostre mappe mentali.
Prepararsi a fronteggiare questi momenti è un compito che riguarda l’educazione (casa-scuola) sin dai primi anni di vita. Invece di fornire delle verità assolute ai bambini, sottoponiamo loro a delle sfide, in modo da farli pensare con la propria testa. Così potenzieremmo la loro capacità di osservazione, di riflessione e di prendere decisioni in autonomia.
Quando il nostro cervello (a qualsiasi età) pensa a come poter risolvere un problema, o quando cerca di capire dove ha sbagliato, innesca un processo di modifica di certe connessioni e di creazione di altre nuove (Neurogenesi). Allo stesso modo, quando i bambini si abituano a pensare, a mettere in discussione la realtà ed a trovare delle soluzioni per se stessi, cominciano ad avere fiducia nelle proprie capacità ed affrontare la vita con più sicurezza e meno timori.
I bambini devono avere la possibilità di trovare il proprio modo di fare le cose, di formarsi una personale interpretazione del mondo e di formare i propri valori.

La Teoria dell’Autodeterminazione (Deci & Ryan) afferma che per motivare i bambini a dare il meglio di sé non è necessario ricorrere a ricompense (motivazioni estrinseche), bensì è sufficiente offrire loro un ambiente adeguato che soddisfi tre requisiti (motivazioni intrinseche):

1.       Fiducia, perché possano sentire di avere già una certa abilità onde evitare frustrazione o ansia e rafforzare l’autostima.
2.       Autonomia, perché possano sentire libertà e indipendenza nella presa di decisioni, per far sentire loro che hanno un certo controllo sulle loro vite.
3.       Disponibilità, perché possano interagire con gli altri e così sentirsi supportati e facenti parte di un gruppo sociale.

Dobbiamo consentire al bambino di credere in se stesso e di diventare una persona autentica, unica e intellettualmente indipendente.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...